Psicopedagogia dei linguaggi (Briganti)
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Ma lui/lei lo sa?

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Ma lui/lei lo sa? Empty Ma lui/lei lo sa?

Messaggio  Alessia.Zoccoli Mar Dic 02, 2008 3:58 pm

[b]Soprattutto quando il bambino con sindrome di Down va a scuola i genitori si chiedono: “Ma sa di avere la sindrome di Down?” “Si è accorta che è meno brava degli altri?” Molti di loro superano anche una naturale ritrosia e lo chiedono all’esperto di cui hanno fiducia.
Cosa rispondere?
Mi pare siano importanti due riflessioni.

Chiediamoci innanzitutto cosa si intende con “sa”.

C’è un sapere di cui noi stessi non siamo consapevoli. Ad esempio “sappiamo” camminare o nuotare o sciare, ma non è detto che sappiamo spiegare agli altri come si cammina e si nuota. Oppure “sappiamo” che oggi non siamo in forma, non abbiamo una buona giornata, ma “non sappiamo” bene perché. Quante volte ci è capitato di capire solo in seguito il motivo del nostro malumore?
Bene. A livello di “sapere” non consapevole il bambino con sindrome di Down sa fin da quando è molto piccolo che in tante cose è meno bravo di altri. Di norma non ci soffre più di tanto. Di sicuro meno dei genitori. A meno che non siano proprio i genitori a “contagiarlo”. E con il passare del tempo impara quasi sempre a convivere con questo suo “sapere” fatto più di sentimenti ed emozioni che di idee e parole. Le sue capacità di adattamento sono spesso molto buone. Soprattutto, come si diceva prima, se lo sono anche quelle degli adulti che gli stanno attorno.

La seconda riflessione riguarda il “sapere” come essere consapevole e saperlo anche trasmettere con le parole. Questo livello di “sapere” è molto più tardo e di norma richiede anche un certo livello cognitivo (più o meno quello che permette ragionamenti tipici dei bambini normodotati di 5 anni).
Poiché la grande maggioranza degli individui con sindrome di Down raggiunge questo livello di pensiero, ne risulta che la grande maggioranza degli individui con sindrome di Down, almeno a partire dai 10 anni (a volte anche prima) è ben consapevole delle proprie carenze. Non sempre lo dicono, perché a volte intuiscono che questo o quell’adulto non sarebbe in grado di tenere una buona conversazione su questi argomenti e “gentilmente lo risparmiano”. Poter dire che questo è dovuto alla sindrome di Down favorisce l’accettazione delle proprie difficoltà per almeno due motivi. Innanzitutto perché si riconosce che la causa non dipende dalla propria volontà o dal proprio impegno, ma da una “malattia”. Inoltre perché non si trovano soli, ma accomunati a quelli che hanno la stessa malattia, gli stessi problemi, le stesse difficoltà.


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Ma lui/lei lo sa? Empty LA PERCEZIONE DI SE'

Messaggio  orefice.veronica Mar Dic 02, 2008 4:22 pm

La percezione di se stessi e le categorie dell’ambiente che li circonda - o meglio ci circonda- corrispondono, sono in antitesi o cos’altro? L’argomento è variamente articolato, esistendo più piani interni di suddivisione. Ovviamente ogni persona ha delle caratteristiche individuali e culturali, ma per ciò che riguarda il disabile si tende sempre a catalogarlo in un determinato status, in cui la specificità è definita solo dalle quantità percentuali legali dell’invalidità. Inoltre c’è una grossa differenza tra l’handicap fisico e quello mentale: l’individuo normodotato intellettivamente può esprimersi personalmente, mentre 'quello con ritardo mentale’ ha spesso bisogno che il suo linguaggio venga mediato in termini condivisi, rischiando perciò un’interpretazione non corretta.


Ultima modifica di orefice.veronica il Mar Dic 02, 2008 7:23 pm - modificato 1 volta.

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Ma lui/lei lo sa? Empty percezione

Messaggio  Admin Mar Dic 02, 2008 5:04 pm

questo è un tema inesplorato.
ne parlai con una mia tesista che me lo chiese.
se qualcuno non ha ancora la tesina questo è un percorso molto bello da approfondire.
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Ma lui/lei lo sa? Empty Re:Ma lui/lei lo sa?

Messaggio  Antonella Lucibello Gio Dic 04, 2008 7:43 pm

Leggendo questo topic, ho ripensato ad una mia vecchia compagna delle scuole medie che ha la Sindrome di Down. Lei faceva spesso a tutti delle domande tipo : “ti faccio paura io?”, oppure “come mi vedi?”. Sono sempre stata convinta che avesse consapevolezza della propria diversità e che spesso approfittasse (uso tale termine in senso buono) della propria condizione, per ottenere ciò che più desiderava. Ricordo inoltre che quando non riusciva in un compito, fingeva di leggere e scrivere e poi guardava sott’occhi per capire se era osservata. Credo quindi che per una persona con tale sindrome, il rapporto con le proprie difficoltà sarà tanto più armonioso quanto più i genitori, gli insegnanti, gli amici sapranno affrontare con lui/lei il discorso sulla sindrome e rispondere alle sue domande. Più ci sarà la possibilità di parlare esplicitamente dei suoi limiti e al tempo stesso di mettere in evidenza le sue capacità, più la consapevolezza della propria identità di persona con Trisomia 21 sarà vissuta serenamente.

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Ma lui/lei lo sa? Empty RE: Lui lei lo sa

Messaggio  chiara.cicione1 Gio Dic 04, 2008 7:53 pm

Certo Antonella, il sostegno della famiglia prima di tutto! io sono convinta che se anche ti vengono a mancare gli amici (perchè è "normale" che prima o poi scompaiano) la famiglia è sempre dietro di te a sostenerti.....ci sono anche le eccezioni, lo riconosco!

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Ma lui/lei lo sa? Empty consapevolezza esemplare....

Messaggio  mariarosaria tarallo Gio Dic 04, 2008 8:17 pm

l'auto-consapevolezza è un concetto molto ampio, non è qualcosa di scontato neanche tra i cosiddetti normododati., le persone nascono, crescono, invecchiano e muoiono (al di là ora di ogni prospettiva spirituale-filofosica) senza, spesso, aver capito "chi sono", senza aver conosciuto davvero la propria identità, senza aver "afferrato" quella linea di continuità che ci fa essere quelli che siamo. In questo, secondo me, le persone con la sindrome di down, che raggiungono la consapevolezza di "chi sono", del proprio non essere precisamente secondo "gli standard", sono molto più avanti dei "normodotati" standardizzati.
Amici cari sanno che da alcuni anni sono orientata a dedicare una parte della mia vita, del mio impegno futuro dopo questa laura, ai bambini e in generale alle persone con la sindrome di Asperger. Molte di esse con le quali ho avuto la grande fortuna, il grande dono dalla vita, di entrare in contatto, mi hanno testimoniato un grado di consapevolezza davvero molto raro a trovarsi tra noi "normodotati", ora non è che voglio discriminare i cosiddetti questi ultimi , ) ma che l'autoconsapevolezza nella nostra società non sia poi cosa facile a trovarsi, lo dimostra il malessere stesso diffuso tra la gente, perduta tra tante solitudini, soprattutto quando ha tutto eppure porta dentro vuoti vertiginosi, perché nello sforzo di conformismo, diffuso tra gli esseri umani, nell'impegno quotidiano di essere perfettamente in forma, a tutti i livelli, secondo i requisiti richiesti dalla mentalità comune e dalla società stessa, non ha mai avuto l'opportunità di ri-congiungersi al proprio cuore, di far germinare la propria identità, quella più vera...
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Messaggio  angela rivieccio Mer Dic 17, 2008 4:54 pm

Trovo che questo tema molto interessante,sia altrettanto complesso.Credo che il grado di consapevolezza della propria condizione dipenda dalla gravità della disabilità.Nei soggetti che presentano deficit sensoriali c'è consapevolezza o comunque percezione della realtà diversa che ci si trova a vivere.Le persone con disturbi psichici hanno molto meno coscienza di sè e degli altri.
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Messaggio  mariarosaria tarallo Mer Dic 17, 2008 4:59 pm

sono d'accordo, Angela R., anche se parlerei di diversa consapevolezza e percezione della realtà, più ancora che di minore.
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Messaggio  Marianna A. Russo Gio Dic 18, 2008 12:19 am

Io credo che la famiglia debba essere la prima ad accettare la condizione del proprio bambino,in modo tale da farglielo capire man mano...Concordo con Angela nel dire che questi bambini hanno poca consapevolezza di sè,ma che con l'aiuto della famiglia si potrà risolvere (almeno in parte).
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Messaggio  Maria Grazia Di Paola Gio Dic 18, 2008 9:09 pm

Il 'sapere' non deve essere sottratto o celato a nessuno, è uno dei tasselli che permette l'autoconsapevolezza, il conoscersi e ritrovarsi.
Se si fanno domande, si chiedono spiegazioni i genitori devono essere i primi a rispondere; essere genitore non è facile comporta affrontare delle scelte, avere coraggio, sapersi confrontare, a volte anche chiedere e donare aiuto sia per se che per i propri figli.
E' anche, e soprattutto, dal loro operato che scaturirà un figlio più consapevole ed autonomo, naturalmente nei limiti del possibile.

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Messaggio  aiello maria Gio Dic 18, 2008 9:18 pm

E' difficile generalizzare per stabilire a quale età avvenga la conoscenza e la consapevolezza della propria disabilità, non essendoci nessuna indicazione: né in libri psicologici che si occupano del tema, né in testimonianze raccolte dai familiari e dagli stessi disabili sull’argomento.
Il motivo ,credo, sia la resistenza a ricordare momenti dolorosi come la scoperta e in seguito la conoscenza dei propri limiti, ed anche spesso il sentimento d’impotenza nell’affrontarli e la dipendenza esistenziale da essi.
L'età in cui si prende coscienza del proprio handicap può dipendere da alcune variabili:
- tal tipo di handicap: congenito, ereditario e/o da trauma
- quando si manifesta: se nel l'infanzia o in età adulta
- dalla sua evoluzione
- da come la propria disabilità si riflette negli occhi degli altri.
I primi sguardi che il bambino/a disabile incontra saranno quelli dei suoi familiari, inizialmente e per la maggior parte delle volte increduli, sorpresi, sopraffatti, disperati, pronti a cercare nel corpo del bambino disabile una parte seppur piccola “da riconoscere”.
Dovrebbe partire proprio da loro l’accettazione del proprio figlio e la realizzazione di una crescita migliore mediata dal sostegno del proprio genitore che facilita nel figlio la convivenza con la propria disabilità.

Anche il compito dell’ insegnante è molto complesso e penso che sia fondamentale portare alla luce le sue capacità ed aiutarlo ad esprimerle e svilupparle in un percorso di crescita evolutiva e di emancipazione ed integrazione.
Potrebbe essere utile allora ribaltare per un periodo e a fasi alterne negli anni dell’età evolutiva, IL RUOLO RIGIDO DI INSEGNANTE-ALLIEVO e far sì di ESSERE ALLIEVI DEI PROPRI ALLIEVI, per conoscerli ed imparare da loro, la loro esperienza di vita, seppur breve, la loro diversità, potrebbe essere essa stessa uno strumento didattico.
Il bambino si sentirebbe appoggiato, sostenuto, capito, parte attiva e protagonista del proprio percorso di crescita e soprattutto non emarginato.
Essere complici dei propri allievi, studiare il modo per aiutarli ad inserirsi nell’ambito scolastico, con i compagni, nel gioco e in un apprendimento, che proprio perché inconsueto ha di per sè un valore aggiunto anche per i compagni.

ciao Wink

aiello maria

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