Psicopedagogia dei linguaggi (Briganti)
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pregiudizi e stereotipie

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Messaggio  Rossella Accardo Lun Dic 08, 2008 4:39 pm

atteggiamenti di discriminazione,di razzismo,stereotipi,pregiudizi contro coloro che appartengono a gruppi minoritari,verso coloro che si segnalano per diversità,verso coloro che arrivano con altri linguaggi,con altre tradizioni,con un'altra modalità di relazione appartengono alla tendenza a generalizzare,a semplificare le situazioni,a estendere elementi noti a condizioni ignote che,come individui,siamo portati a fare per un normale processo di economia cognitiva,che ci porta a ridurre il campo dell'esperienza personale a favore di un risparmio intellettivo.
in fondo le discriminazioni non sono altro che meccanismi sociali che sorreggono le stesse rappresentazioni sociali,utili alla costruzione della relatà,dei quali dunque non dobbiamo meravigliarci,nè pensare che potremmo più di tanto sottrarci ad essi,ma dei quali dobbiamo essere consapevoli e reagire ad essi quando riguardano particolari ambiti,rischiando di concretizzarsi negli stereotipi e nei pregiudizi che definiscono le differenze sessuali,etniche,razziali,di casta e di classe,concorrendo alla determinazione delle distanze sociali tra gruppi e tra classi e stabilendo criteri di selezione.
generalizzazioni e pregiudizi sono presenti nel nostro modo di avvicinarci alle cose e alle persone,perchè sono una modalità economica di pensare,ma possono diventare pericolosi quando non li consideriamo nel loro giusto spessore,che deve essere quello di vederli quali atti preliminari ai quali vanno fatti seguire contatti diretti per conoscenze concrete.
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Messaggio  Rossella Accardo Lun Dic 08, 2008 4:50 pm

il pregiudizio rientra perfettamente in questo quadro di riferimento,essendo un'opinione priva di riscontri diretti,ma derivata dal sentire comune,alla quale dovrebbe seguire il giudizio,cioè l'attribuzione di un oggetto ad una categoria,espressa mediante il rapporto di due concetti. Purtroppo,spesso,proprio a causa del pregiudizio,non arriviamo a formarci un giudizio derivandolo dalla conoscenza,perchè alla prima opinione,che non si trasforma mai in reale conoscenza,non è riconosciuto il ruolo di generalizzazione propedeutica,bisognosa dunque di confronto diretto.
molti pregiudizi hanno origine da meccanismo di difesa,e a questo proposito,Allporti analizzando il contesto sociale,individua dieci situazioni che portano gli individui e i gruppi sociali a sviluppare pregiudizi:
- la presenza di elementi diversi e non armonizzati nella società
- intensi processi di mobilità sociale
- bruschi cambiamenti sociali e culturali
- una insufficiente comunicazione tra i membri della società
- l'ampliarsi del gruppo minoritario
- la presenza di conflitti tra i gruppi
- lo sfruttamento dei membri del gruppo minoritario
- il non condannare atti di violenza e di fanatismo da parte della società nella quale si verificano
- l'egocentrismo della cultura dominante
- l'opporsi delle minoranze ai processi di integrazione culturale
non vi è dubbio che sono diversi gli elementi che connotano la dieci condizioni indicate dal Allport come occasioni di pregiudizi:interessi economici,difficoltà di comunicazione,paura di essere sopraffatti,ecc.. ma tutte sono riportabili a un'unica matrice che è quella dei meccanismoi di difesa che il gruppo mette in atto quando teme di essere sopraffatto,di perdere dei privilegi,di poter perdere la propria connotazione,quando teme di ritrovare in se stesso uguaglianze con ciò che vede negli altri.
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Messaggio  Rossella Accardo Lun Dic 08, 2008 4:57 pm

discriminazioni,pregiudizi,stereotipi,forme di razzismo hanno tutte alla base una mancanza di conoscenza,una limitata interazione,una paura a ritroovarsi simili nella diversità,ma anche una mancanza di comunicazione che esiste sempre nei confronti dei diversi.
per superare il pregiudizio bisogna educare al rispetto dell'umanità che è negli altri,nei diversi,un'umanità che è portatrice di ricchezze esistenziali,ma per fare questo non basta presentare all'educando un ideale astratto di tolleranza,in quanto la tolleranza che viene normalmente contrapposta come valore positivo all'intolleranza,in realtà non è sinonimo di riconoscimento dell'altro,ma esprime piuttosto la passività,la sopportazione,la ricerca di un male minore,la posticipazione al confronto.
i pregiudizi non possono essere eliminati chiedendo a chi ne è pervaso di rinunciare a determinate idee e valori,senza offrirgli in alternativa altri valori e idee,come per esempio lo spirito di cooperazione,il senso di giustizia sociale,il concetto di volontà e di pace.
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Messaggio  Rossella Accardo Lun Dic 08, 2008 5:01 pm

un pregiudizio non è un bruscolo in un occhio che possa essere estratto senza disturbare l'integrità dell'intero organismo. al contrario,il pregiudizio è spesso così profondamente radicato nella struttura caratteriologica da non potersi modificare senza nel contempo variare tutta la visione della vita dell'individuo in questione.. non si può sperare di variare la parte senza variare il tutto...
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Messaggio  Rossella Accardo Lun Dic 08, 2008 5:05 pm

il lavoro in questa direzione è certamente impegnativo,ma fondamentale nel processo di crescita del soggetto,perchè gli atteggiamenti di apertura ai diversi facilitano i contatti con oindividui favorevoli al dialogo,allo sviluppo di buoni rapporti con tutti e consentono quindi di praticare la tolleranza e il rispetto dell'altro.
è la solidarietà che ci permette di abbattere il muro del pregiudizio e dell'intolleranza,in quanto suppone sempre disponibilità alla stima e alla fiducia reciproca,al rapporto,al dialogo,all'arricchimento personale,cioè suppone simultaneamente una certa visione del mondo e una certa concezione della persona.
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Messaggio  francesca.pezone Lun Dic 08, 2008 5:36 pm

...spesso si è abituati a vedere, affidare, il giudizio sull’altro all’immagine
superficiale di rimando, al ciò che appare, e non a guardare, e cioè sospendere un
giudizio affrettato e cercare di andare al di là di ciò che appare …
Tutto ciò è frutto di una cultura pervasa da pregiudizi e stereotipi.
Il pregiudizio (dal latino pre-iudicium) è un giudizio precedente all’esperienza,
è un giudizio emesso senza dati sufficienti: è, pertanto, una rappresentazione mentale
che ha radici culturali profonde e che si concretizza in particolari rappresentazioni
sociali; e, come tutte le rappresentazioni sociali, non riflette necessariamente il reale,
ma lo crea, “fa vedere qualcosa e mette in ombra altro”, orientando in tal modo il
nostro comportamento nei confronti della realtà così costruita.
Dice il prof. Angelo Lascioli (in Handicap e pregiudizio). “Il pregiudizio è un
potere agito-subito. Chi lo agisce, lo subisce in termini di una riduzione della
possibilità di comprensione della realtà. Chi lo subisce, lo agisce portandone il peso,
assumendone i contorni e le deformità. La sua potenza consiste proprio in questo
limitare attivo e passivo. (Il pregiudizio) si configura come potere dell’uomo
sull’uomo”
Lo stereotipo etimologicamente vuol dire impronta rigida (dal greco
stereos=rigido e typos=impronta), è come una macchina per riprodurre immagini a
stampa. Il nostro cervello si serve degli stereotipi come schemi semplificatori della
realtà, quasi necessità difensive rispetto a ciò che è estraneo o spaventa: per non
mettere in discussione la nostra identità, e, direi di più, per vivere nel mito di
un’identità unica, palese, definita; in conclusione per non doverci mettere in gioco.
Lo stereotipo, pertanto, non solo valuta e orienta l’azione, ma fornisce immagini
che alimentano il pregiudizio.
Qual è, allora, il passo da compiere per uscire da questo meccanismo?
La risposta ci viene da un concetto espresso nel libro Quel bambino là … Storia
dell’infanzia – handicap e integrazione del prof. Andrea Canevaro “Lo stereotipo è
un calco, che riproduce sempre lo stesso disegno. Occorre conoscere questo calco,
ma poi occorre poterlo rompere per conoscere e riconoscere una originalità
individuale”.
Wink
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Messaggio  Rossella Accardo Lun Dic 08, 2008 8:12 pm

nel 1994,il ministero degli affari sociali italiano,in occasione della giornata mondiale della tolleanza,ha presentato il Decalogo antirazzista,proponendo i principi che dovrebbero regolare la convivenza tra soggetti "diversi",per razza,per origine sociale,per lingua,per religione e per mille altre condizioni.
riporto qui di seguito il decalogo,perchè mi sembra che ancora oggi,anzi forse soprattutto oggi,possa essere occasione di riflessione per coloro che si occupano di educazione,di formazione,per tutti quei soggetti che dovrebbero contribuire a formare mentalità aperte alla diversità e dovrebbero costruire modi nuovi per confrontarsi con essa. il decalogo dice:
- creatività culturale e sviluppo della civiltà sono prodotti dell'incontro tra i popoli,non della separazione delle genti. la chiusura nei confronti dell'altro è all'origine del decadere delle civiltà ed è strumento utilizzato per foccocare i fermenti di libertà.
- la diversità non è mai assoluta,è relativa. siamo tutti diversi rispetto a qualche cosa.
- ogni diverso è anche un simile. molte più cose ci accomunano agli altri,di quante non ce ne dividano:sul piano biologico,così come su quello psicologico,dei sentimenti e della ragione.
- non bisogna aver paura di trovarsi simili nella diversità
- non tutto ciò che è diverso è di per sè stesso buono;nè tutto ciò che è diverso è di per se stesso cattivo.
- la diversità può anche essere una richeza straordinaria. valorizzarne gli aspetti positivi non è un dovere soltanto delle istituzioni ma per ciascuno di noi.
- la tolleranza è importante,ma non basta. per costruire una società più giusta occorre simpatia e partecipazione.
- la difesa dei diritti degli altri promuove e assicura i diritti di tutti.
- razzismo e xenofobia sono espressione di paura e ignoranza. il rifiuto dell'altro è un modo per mascherare la propria debolezza e la propria invidia,la propria incapacità a rischiare nell'incontro
- il pluralismo è una sfida da vincere per chi non vuole un'esistenza povera e rinsecchita:la gioia si costruisce nell'incontro,la felicità ha il volto della novità e della sorpresa.

ogni punto del decalogo è importante e meriterebbe una trattazione articolata,ma per ora mi soffermo solo sul II punto:
siamo tutti diversi.

certamente siamo tutti diversi e,come diceva qualche tempo fa un disabile,questa diversità va rispettata,in certi casi è addirittura una ricchezza,in altri è una fatica in più.
diverità non deve però significare minori diritti,non può comportare ostracismi,non deve portare a giudizi che precedono la conoscenza diretta di quella persona,dei suoi bisogni,ma anche delle sue risorse.
siamo tutti diversi perchè non siamo robot,ma individui con caratteristiche,vissuti,educazioni,culture,esprienze diverse che ci hanno modellato diversi,ma non di valore differente,perciò a tutti devono essere risonosciuti pari dignità e pari diritti,perchè la vita di ciascuno di essi possa essere una vita di qualità.
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pregiudizi e stereotipie Empty Re: pregiudizi e stereotipie

Messaggio  Angela Riv. Dom Dic 14, 2008 2:32 pm

La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (10 dicembre 1948), afferma che "tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti" (art. 1) e che "ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciati nella presente Dichiarazione senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione" (art. 2);
- la Costituzione Italiana, all’art. 3, sostiene che: "tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali".
I meccanismi sociali di discriminazione e di esclusione producono un impoverimento di risorse personali e abilità nella vita sociale e di relazione.
Angela Riv 2
Angela Riv.
Angela Riv.

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pregiudizi e stereotipie Empty Pregiudizio e stereotipie..ma la scuola????

Messaggio  orefice.veronica Dom Dic 14, 2008 2:36 pm

Disabilità, handicap, difficoltà di sviluppo umano costituiscono una galassia inesplorata.
L’effervescenza delle mille iniziative per migliorare la vita dei ciechi, dei sordi, dei down, dei cerebrolesi, degli spastici, e di molte altre condizioni umane, in cui deficit conclamati o nascosti oppongono resistenze e provocano sofferenze, è un dato incontestabile della cultura italiana a partire dagli anni Settanta.
Occorre precisare che l’handicap è ancora al centro dell’attenzione degli psicologi e degli psichiatri. Ma la sottolineatura del deficit, dei vincoli delle ricerche sulle cause, la puntigliosità statistica e metrica è ciò di cui meno ha bisogno chi, nonostante il deficit, deve affrontare la quotidianità.
Il pregiudizio è un “potere” agito-subito. Chi lo agisce, lo subisce nei termini di una riduzione della possibilità di comprensione della realtà. Chi lo subisce lo agisce portandone il peso, assumendone i contorni e le deformità. La sua potenza consiste proprio in questo limitare attivo e passivo.
Si configura come “potere” dell’uomo sull’uomo che, nel momento in cui viene analizzato, mostra di avere radici profonde e molto diramate. Il pregiudizio è anche una forma di “non vedere” di cui siamo tutti più o meno affetti.
Così può succedere di non riuscire a vedere ciò altrimenti sarebbe evidente, chiaro, che si trova lì davanti ai nostri occhi; oppure succede di non riuscire a vedere ciò che potrebbe e dovrebbe esserci in ciò che vediamo come completo, anche se in realtà è carente del necessario.
È in questa prospettiva che l’uso del termine” diverso” con riferimento al soggetto disabile risulta scorretto logicamente. E’ per un errore logico che il termine handicap è finito col definire “specie” dentro il”genere” uomini. E’ questa la logica illogica che si nasconde dietro l’uso comune della parola handicap, divenuta per antonomasia giudizio di quasi umanità. Questo è anche il malinteso di fondo che sottende il pregiudizio sull’handicap. Bisogna analizzare i costrutti sociali, culturali e psicologici che sottendono ed ingenerano questa riduzione specifica di appartenenza al genere.
Il termine handicappati è utilizzato nel linguaggio comune per individuare l’insieme di coloro che, in quanto affetti da qualche deficit o malformazione, sono ritenuti “diversi”. Il ragionamento è semplice: al di qua dell’handicap si pone il normale, al di là il “diverso”. Il pregiudizio dell’handicap dunque, fa riferimento ad un sistema simbolico (la cultura dello scarto) che scarta, in quanto ingombrante, quel frammento che è il disabile.
L’azione del pregiudizio e dello stereotipo sull’handicap, in quanto azione di scarto, rende difficile lo sviluppo e l’accettazione di un sapere, quale quello della Scuola, il cui fine ultimo è proprio quello di restituire l’intero frammento ed il frammento all’intero.
Pregiudizio e stereotipo rinforzano cosi la mentalità dell’assistenzialismo, della compassione, della dipendenza; questo a scapito di una vera cultura dell’integrazione.
Bisogna rendersi conto che, “ la vergogna, il risentimento, la pietà, la compassione non sono affatto criteri cognitivi, ma già costrutti mentali intrisi di componenti affettive… Imbarazzo e disgusto coprono la paura di riconoscersi frammento di fronte al frammento e inizia così in modo sottile, l’atteggiamento deprezzante e di rifiuto ”.
Pregiudizi e stereotipi creano maschere sia per nascondere la diversità di ognuno, che per impedire l’affiorare alla coscienza di domande che possono sconvolgere il sistema di regole e valori dello “scarto”. Chi sono? Perché esisto? Da dove vengo? Dove vado?
Le maschere tolgono l’individualità, la concretezza, il nome. Le maschere hanno nomi che non rappresentano individualità ma categorie. Ma la ricchezza del diverso, per essere colta, comporta la presenza di un nome, la riscoperta dell’unicità di ognuno, l’ascolto della sua particolare domanda di umanità e di senso. La propria umanità nessuno la possiede, ma la scopre nella relazione con l’altro, con la realtà. Nella dimensione dell’apertura alla vita ognuno scopre se stesso,il proprio volto umano. Il sofferente, il malato terminale, il disabile sono la “cifra” più alta per confrontarsi con i misteri ed i limiti dell’uomo. È lì dove la vita sta per finire, dove il passato si infrange contro gli scogli della fine che avanza, dove il limite sovrasta, che il senso profondo della vita può essere colto, avvicinato, disgelato. Proprio dove la vita sta per finire, è minacciata o è molto limitata nasce il bisogno di comunicazione, di relazione e di dialogo.
“Considerare le condizioni del disabile in un contesto sociologo, vuol dire in definitiva studiare la sua “immagine sociale” e i significati culturali, morali e scientifici ed economici che si attribuiscono alla sua figura in quanto rafforzano ed organizzano i processi di stereotipizzazione del fenomeno ”.
Il muro impalpabile del rifiuto del diverso a cui concorrono pregiudizio e stereotipo impedisce, a chi lo ha innalzato, di vedere l’handicap come qualcosa che attraversa trasversalmente l’umanità, e se stessi, in quanto indigenza cronica di senso, richiamo insaziabile d’ ulteriorità.
Essere frammentato è un dato che riguarda ogni uomo non solo i disabili:
“Spesso i disabili, nell’immaginario dell’uomo della strada, sono visti e considerati ”frammenti d’umanità”. E c’è chi li considera preziosi. E chi, invece, degli scarti, ingombranti, pesanti comunque. C’è chi vede in quello scarto l’intero, e chi non sa, o non vuole vederlo”.
L’integrazione non significa quindi assimilare al perfetto il non perfetto, ma apertura al diverso, al nuovo, alla diversità costitutiva dell’altro, di ogni”altro”.
Integrare non solo materialmente ma anche spiritualmente ogni frammento, significa risanare queste carenze a copertura delle quali operano pregiudizi e stereotipi quali vere e proprie corazze ideologiche, attraverso l’educazione, la cultura e l’interazione sociale
In questa prospettiva, l’educazione vera è riduzione di asimmetria tra educatore ed educando: ridurre le asimmetrie è uguale a “scartarsi”, ovvero, disgelare la propria “nudità” interiore, rendersi accessibili all’alterità. L’azione educativa è autentica se ha il potere di trasformare noi insieme a coloro verso cui è rivolto. Per superare la cultura del pregiudizio sull’handicap ci vuole un azione educativa capace di modificare testi e contesti nei quali il pregiudizio, non solo agisce,ma si costituisce.
La cultura non è solo qualcosa di cerebrale o razionale, ma è qualcosa che segna di sè la sensibilità, la percezione, il pensiero, la coscienza della persona. In tal senso la “cultura” può assumere anche il significato di strumento d’oppressione e alienazione:specialmente di chi è debole.
L’interazione sociale è il luogo in cui la cultura è assorbita e metabolizzata. Essa è l’elemento necessario alla formazione della società ed al suo funzionamento.
Nel riconoscere in se stessi i propri “scarti”, le proprie disabilita, e nell’integrarsi alla propria auto-educazione , si pongono le basi dell’integrazione di ogni altra alterità e diversità.
Conoscere, imparare sono elementi costitutivi dell’essere umano. L’uomo per conoscersi ha bisogno di guardarsi nell’ altro; la propria immagine esteriore gli è accessibile attraverso lo specchio; la propria immagine interiore gli è accessibile attraverso la relazione con il tu.
Anche la cultura è un “altro da sé ”attraverso il quale si può penetrare più profondamente in se stessi.
Studiare,imparare,conoscere trovano in questo il loro fine ultimo.
Alcuni studi, inoltre, hanno dimostrato che l’utilizzo di strategie cooperative nei contesti educativi migliora i risultati accademici degli studenti indipendentemente dalla presenza di situazioni di svantaggio.
Intelligenza deriva dal latino intus-legere : andare al “cuore ” delle cose.
L’intelligenza è quindi qualcosa di fondamentale per cogliere il cuore anche si se stessi, della propria essenza.
È necessario quindi che, per una reale prospettiva di educazione, per superare le barriere interpersonali del pregiudizio sull’handicap, la scuola si ristrutturi come luogo dell’educazione all’intelligenza in tutte quelle che sono le sue componenti: identità, autostima, alterità, dialogicità, cooperatività. Ovviamente,in alleanza con la famiglia.
Il pittore Paul Cèzanne annota che per entrare in contatto col mondo della natura e lasciarsi assorbire dalla sua vita occorre che la mente si faccia silente e metta a tacere << tutte le voci del pregiudizio, deve dimenticare, diventare quieta. La natura esterna e quella interna devono penetrarsi reciprocamente >>.
Quello che il tempo presente chiede all’educazione è allora di contribuire innanzitutto a mettere in movimento un riorientamento radicale della postura affettiva, capace di capovolgere il sentimento di rifiuto in un senso di accettazione per la condizione umana, quel sentimento che Hannan Arendt definisce come << la gioia di abitare insieme con gli altri un mondo >>. Una forma di sentire positivamente orientato è la condizione necessaria per nutrire una nuova disposizione etica, perché, solo accettando di essere come si è, si può essere liberati dall’ossesione di cercare ciò che non si può essere, cioè soggetti capaci di sovranità sulla vita sociale e naturale.

orefice.veronica

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