Psicopedagogia dei linguaggi (Briganti)
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Disabilità e silenzio - L'altra faccia della medaglia

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Disabilità e silenzio - L'altra faccia della medaglia Empty Disabilità e silenzio - L'altra faccia della medaglia

Messaggio  Maria Grazia Di Paola Mar Dic 02, 2008 8:33 pm

La mia collega (Aligante Teresa) e io (Maria Grazia F. Di Paola) riprendiamo le file del discorso sulla disabilità annodando i fili del silenzio.
Silenzio come comunicazione
Silenzio come alternativa alla parola
Silenzio come altro dal gesto
Silenzio come vicinanza
Silenzio come ascolto
Silenzio come essere presente
ma anche
Silenzio come vuoto
Silenzio come oblio
Silenzio come manto che annulla
Silenzio come non visibilità

Il silenzio si può immaginare come uno strumento della riflessione, nel quale l'uomo si distende per rettificare il gettito della produzione del suo sapere, ma anche può essere rifugio della sua incapacità creativa o attimo di assestamento per la distribuzione delle sue risorse. Nel silenzio acquista dimensione trascendentale e per mezzo della quale, l'uomo, valuta i problemi dell'esistenza dando impulso alla diversità dell'esperienza e del sapere, trasformandosi egli stesso in creatività.



Disabilità e silenzio - L'altra faccia della medaglia Silenzio

Maria Grazia Di Paola

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Messaggio  Maria Grazia Di Paola Mar Dic 02, 2008 8:47 pm

Immagini parole silenzi...


Non è vero che io faccio le immagini come i gesti del sordomuto perché non posso e non riesco a parlare, ma perché preferisco e scelgo di non parlare, di non movimentare la lingua, la bocca, la gola per emettere suoni con i quali, per convenzione, mi comprendo con gli altri.

Allora la creazione di immagini è una ribellione al linguaggio parlato, una ribellione al rapporto con gli altri per la ricerca del benessere, ribellione che costa, come è noto, più che la solitudine, il rischio di non essere compresi, di rimanere con il dubbio e l'angoscia di una castrazione, di una impotenza, di una follia.

Quella vigliaccheria dei nostri grandi di far finta di abolire il linguaggio per esprimersi con le immagini che riproducono la realtà circostante, ci racconta tutta l'angoscia che accompagna qualsiasi persona voglia riprodurre, rappresentare all'esterno di sé una fantasia propria.

Perché appunto forse possiamo dire ed evidenziare che i passaggi sono sostanzialmente due: il passaggio dal linguaggio articolato alle immagini come rappresentazione della realtà esterna, cosa che si può verbalizzare come far finta di non parlare, e la rappresentazione di immagini interiori all'esterno di sé che significa veramente rinuncia per sempre al linguaggio parlato.

Possibile, come ci dimostra l'arte dell'ultimo secolo, in quanto si fa strada un pensiero, un'idea, che questa rappresentazione all'esterno di sé di immagini interiori non è assenza di linguaggio; ovvero, in altre parole, non è perché uno non può parlare, ma perché appunto, più che non poter parlare, realizza questa strana cosa che è tagliarsi la gola e preferire il silenzio. Silenzio che privilegia le mani per dire e raccontare del proprio rapporto con la realtà presente e passata.

Privilegia, diremmo estensivamente, il movimento del corpo che l'artista intuisce che va perduto nel momento in cui comincia ad articolare le parole, e così ci si pone di fronte un'immagine di rifiuto del linguaggio parlato che è cosa assolutamente diversa dalla perdita o assenza di linguaggio parlato.

E' soltanto il rifiuto che permette quella regressione che conduce al passato, a ciò che è accaduto, che accadde in tempi assolutamente dimenticati e noi non sappiamo neppure cos'è questo rifiuto, forse è un'immagine di silenzio, forse è un primo mostro, una prima immagine mostruosa, per la quale un essere umano adulto intelligente e geniale non ha più la caratteristica peculiare della realtà umana, non ha più, per esprimersi, quel suono articolato che distingue la bocca animale da quella umana.

Allora dobbiamo recuperare quello che è andato perduto quando abbiamo cominciato a parlare e a camminare, per cui parlando camminiamo male, non avendo più qualcosa che stava prima della realizzazione della potenza del corpo che si muove da solo senza bisogno del bastone o della mano di un altro.

E questo qualcosa non può essere altro che quello che nominiamo immagine interna.

Il silenzio che accompagna i nostri sogni ci fa recuperare i colori, le forme e le figure di quello che abbiamo visto, udito, pensato; ma non ci fa muovere il corpo che giace inerte, condizione indispensabile perché emergano le immagini nella mente. Quando il corpo si muove, alla veglia, rimane di esse soltanto un vago ricordo.

Non riesce mai o quasi mai questa fusione tra immagine interna e realtà materiale del corpo; succede evidentemente qualcosa quando dobbiamo sorreggerci da soli sulle nostre gambe, per cui muoversi diventa un fatto fisico necessario di forze convergenti e divergenti che fanno un'architettura senza anima.

Allora l'artista deve, vuole recuperare questa anima che se ne è andata e che è una immagine o certamente sono molte immagini come quelle che si riescono a configurare quando si rappresenta la deambulazione umana nei suoi vari movimenti. Una pellicola cinematografica in cui l'accostamento dei singoli numerosi fotogrammi statici determina la visione di un movimento che di fatto non esiste.

Gli artisti hanno sfidato la scissione poiché dipingono e scolpiscono allo stato di veglia con il movimento del corpo.

Le immagini diventano statiche, cioè morte, ogni volta che si staccano dal corpo per diventare rappresentazione mentale o arte figurativa esterna.

Poste su una tela o composte con il marmo, sono i singoli fotogrammi di una pellicola cinematografica che sta nella mente, nel ricordo di singole figure formatesi nel cervello per una percezione esterna.

Poi no, poi hanno fatto di più e hanno fatto man mano scomparire la riconoscibilità della percezione esterna e compaiono le forme di Matisse, i colli di Modigliani.

Poi, di più, non si tratta soltanto di deformare come fa un ubriaco la figura esterna, ma si tratta di renderla irriconoscibile, si tratta di distruggerla, di farla a pezzi, come fa Picasso nella misura in cui si accorge che la riproduzione delle immagini esterne è una orrenda negazione della percezione e della fantasia interiore.

Quella visione che fa il rapporto sano e normale con la realtà è in verità una normalizzazione, un condizionamento che porta a poter stare insieme agli altri senza urti, lacerazioni, scontri.

Per tutti amorevolmente un albero è un albero, e non si discute e siamo tutti d'accordo, il mare è il mare e siamo tutti d'accordo e, di nuovo, l'artista non può essere più d'accordo, perché questo significa la morte della fantasia interna, per cui ci rappresenta un albero mostruoso, irreale, non corrispondente alla realtà esterna.

Poi, ancor di più, ci rappresenta la realtà umana come mostruosa, anormale, e non nel senso di rappresentare i mostri patologici, del bambino a due teste o del vitello a due gambe, ma arriva a rappresentare qualcosa di inesistente nella realtà e nella storia, inesistente, cioè mai pensato e, più che pensato, immaginato dalla mente degli uomini.

La rappresentazione della mostruosità esistente, del male, della distruzione, sono sempre riproduzioni della realtà, quasi a pensare che Guernica non sia un'opera d'arte perché rappresenta una realtà: la frammentazione, la distruzione, la morte provocata da una violenza esterna.

Forse, appunto, nella frammentazione che Picasso ci rappresenta si può riconoscere qualcosa di possibile, che uno squartatore faccia qualcosa che possa essere riprodotto da un artista o da un fotografo: l'assurdo quadro de Les demoiselles d'Avignon.

Potremmo così scoprire che la tendenza nell'arte della creazione di qualche cosa che non è mai esistito - cosa che non si può fare mediante forze applicate sulla materia che determinano la deformazione di essa, cioè delle sue immagini naturali - è quella verso l'assolutamente nuovo, cioè che non è riprodotto ma appunto creato, con il dubbio, irrisolvibile, che si tratti di una trasformazione assoluta, in cui il precedente non è più riconoscibile.

E ancora, la tendenza alla creazione di immagini assolutamente nuove, la ricerca di una mostruosità impossibile nella realtà materiale, ma possibile nella fantasia interna, quasi come creazione di qualcosa da niente, dall'eliminazione del rapporto con il mondo come se uno non lo avesse mai né visto né sentito e conosciuto, allora la creazione delle immagini è assolutamente nuova ed originale.

La sfida dell'artista diventa sfida al pensiero verbale e al linguaggio se si legge il confronto tra il pensiero verbale e il linguaggio che scoprono le cose assolutamente nuove mediante definizioni di esse e la fantasia interna dell'artista che scopre le cose avendo rifiutato il pensiero verbale e il linguaggio, e corre il rischio di non scoprire nulla, ma di inventarsi dal niente le immagini ponendo nella realtà cose che non ci sono mai state, come fanno i pazzi.

Questo mostro potremmo dire che non ha più nulla di naturale e di umano, ma che non avendo più figura, non avendo più forma, non si capisce più che cosa possa rappresentare. Forse ci hanno provato Cézanne e Van Gogh andando verso il colore puro, forse Chagall con il suo cavallo rosso.

Al di là della figura, della forma e del colore, al di là del colore, non sappiamo, non c'è nessuna altra possibilità di comporre un qualche cosa che ci dica di qualche altra cosa che fosse al di là della nascita.

La ricerca di elementi vitali e di poter raccontare elementi vitali; e dobbiamo cercare ancora prima di perderci o di fermarci al di là del colore; e quel nero, che viene definito come assenza di colore; e dobbiamo cercare ancora fino al pensiero-ricordo che noi parliamo; allora dobbiamo tentare di toccare quella strana e impalpabile cosa che può essere di qualsiasi colore senza che con ciò la sua essenza cambi che è la linea.

Detto ciò, la parola scatena immediatamente tutte le immagini e i pensieri rubati a quell'altra forma d'arte non conosciuta e non definita ... e poi il silenzio sovrano



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Messaggio  Maria Grazia Di Paola Mar Dic 02, 2008 8:56 pm

La follia...il silenzio...l'ascolto del silenzio

Silenzio e follia sono cugini.
Nonostante occupino ambiti diversi, essi sono vicini nella capacità di indicare che qualcosa si è perso. Se il cuore dell'incontro filosofico, da Socrate e Platone, è il dialogo, il silenzio può esserne alterazione e minaccia. Anche la follia è una minaccia, pur se di tipo diverso, al discorso, giacché essa può fare ogni sorta di rumore, stare in silenzio nonché esprimere osservazioni stupefacenti che in ultima analisi non hanno senso: come «il più silenzioso degli uomini» dello Zarathustra di Nietzsche. Follia e silenzio sono cugini perché funzionano come una lacuna nello sforzo umano di stabilire comprensione reciproca e razionale. Tuttavia non ogni silenzio è una minaccia al discorso e al dialogo o è segno di disordine mentale, né ogni forma di pazzia è un pericolo per la socievolezza umana. Da momenti di silenzio può infatti nascere la verità come pure possono nascere casi di comunicazione intensa e esistenziale, allorché l'assenza, scrive Attilio Bertolucci, è «più intensa presenza».

Non si dimentichi che il silenzio è divenuto una condizione rara e preziosa della nostra epoca fracassona, dalla quale Arpocrate, il puer mitologico che tiene l'indice davanti alle labbra invitando a tacere, è stato bruscamente estromesso. Tanto prezioso è il silenzio, soprattutto il silenzio positivo nella forma di entità e presenza, che gli è stato perfino dedicato un festival che ha già avuto due edizioni, nel 2005 e nel 2007.

Il silenzio come preludio: al suono, alla parola, al rumore, che anch'essi non esisterebbero se il silenzio non fosse. Senza il silenzio non potremmo ascoltare né i suoni né la parola né la musica, e nemmeno potremmo indicare la disposizione all'ascolto dell'altro.

Disabilità e silenzio - L'altra faccia della medaglia Massimo%20Silenzio_7

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Disabilità e silenzio - L'altra faccia della medaglia Empty Teatri del silenzio

Messaggio  Maria Grazia Di Paola Mar Dic 02, 2008 9:06 pm

teatro palcoscenico della rappresentazione silenziosa
immagini
parole
azioni
di silenzio

http://www.teatridisilenzio.com/immagini.htm

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Disabilità e silenzio - L'altra faccia della medaglia Empty IL SILENZIO COME ASCOLTO

Messaggio  teresa aligante Mar Dic 02, 2008 10:02 pm

Il silenzio non è il luogo della passività o dell’isolamento, ma lo spazio originario dove ridare voce all’essenziale, alla dimensione più vera di noi stessi, al senso complessivo del vivere.
Vi propongo questa riflessione, tratta da L’esercizio del silenzio di Pier Aldo Rovatti, che ci suggerisce la dimensione feconda del silenzio, inteso come spazio privilegiato per dare voce a ciò che, in un mondo che ci appare sempre più imprevedibile, disorientante, quando non ostile, teniamo segregato in quella gabbia d’acciaio che è diventata la nostra anima, in modo da poterci omologare ai linguaggi e ai vissuti dei più:
"Dopo aver camminato a lungo per le vie, in mezzo alla gente, alle cose e ai segnali, ho voglia di isolarmi dal rumore: cerco un luogo tranquillo per riposare, rilassarmi, pensare; per non pensare a niente, svuotarmi i sensi e la testa; per concentrarmi, smettere di sentire, cominciare ad ascoltare... Questa condizione di silenzio e di solitudine mi permette di ritrovare una percezione di me e del mondo che mi sta attorno, precisamente un ascolto. Il silenzio che mi sono procurato, isolandomi dai rumori normali, mi permette di ascoltare... Mi accorgo che in questo rilassarmi ho lasciato essere una dimensione di apertura della mia esperienza che di solito è messa a tacere".
L’omologazione esistenziale ci offre una sorta di rassicurante rifugio contro la fatica del vivere e, soprattutto, non mette alla prova il nostro coraggio, la nostra libera volontà di progettare percorsi alternativi a quelli efficientistici e produttivistici che connotano in modo radicale questo nostro stare al mondo.
Ascoltare il silenzio, di contro, mette in gioco la nostra “realtà totale” di uomini e ci permette di guadagnare alcune feconde dimensioni dell’esistenza, che qui ci limitiamo ad elencare:
- Il silenzio come distanza dalla parola consueta;
- il silenzio come farmaco contro l’iperattivismo dell’”uomo-vetrina”;
- il silenzio come primato della “persona” sul “ personaggio”;
- il silenzio come scelta contro la decisione;
- Il silenzio come via privilegiata al dubbio metodologico e non esistenziale.

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Disabilità e silenzio - L'altra faccia della medaglia Empty L'odore di un rumore

Messaggio  Maria Grazia Di Paola Mer Dic 03, 2008 6:50 pm

Shhh…
Sento qualcosa.
Sento l’odore di un rumore.
Come il rumore di una tartaruga.
Si, è proprio questo.
E’ il rumore di una tartaruga,
ed è meraviglioso,
perché le tartarughe
vivono dentro le conchiglie.
Ti piacerebbe
vivere in una conchiglia?
Saprebbe
di un rumore di tartaruga,
ma penso
che sarebbe magnifico!

Questa poesia è stata scritta da Mattie J. T. Stepanek bambino affetto da distrofia muscolare.
Il silenzio permette anche di sentire, di scorgere i rumori, di percepire l’altro e noi stessi.

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Disabilità e silenzio - L'altra faccia della medaglia Empty silenzio e sordità

Messaggio  teresa aligante Mer Dic 03, 2008 6:56 pm

Per secoli i sordi sono stati considerati degli inabili, confinati ai margini della vita sociale, accettati con commiserazione o sopportati con fastidio. Il loro universo silenzioso è stato invece la molla per potenziare la loro sensibilità: la privazione dell’udito si è trasformata nella capacità di sviluppare l’esperienza visiva, il silenzio di uno dei cinque sensi ha aperto la strada ad una lingua nuova: il linguaggio dei segni, il linguaggio di un corpo silente ma perfettamente comunicante. I sordi hanno imparato, attraverso questa sfida percettiva, a leggere le parole dai lievi movimenti delle labbra, hanno esercitato la vista facendone un’arte capace di “capire” da ogni segno, da ogni più piccolo dettaglio, da ogni impercettibile particolare, l’intenzione ed il pensiero degli interlocutori. Hanno appreso come scoprire nel mondo circostante le sfumature, gli impalpabili “segnali”, le minime espressioni per identificare l’amico e il nemico, il pericolo e la sicurezza, l’utilità e l’inutilità, l’accettazione e il rifiuto.
Hanno accumulato in questo modo un immenso patrimonio di sapere e di cultura e hanno trovato nel tempo la propria identità formata giorno dopo giorno dalla inesauribile volontà di ottenere il riscatto e l’integrazione.

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Disabilità e silenzio - L'altra faccia della medaglia Empty Silenzio e comunicazione

Messaggio  Maria Grazia Di Paola Mer Dic 03, 2008 7:26 pm

Le conseguenze cliniche del troppo rumore sono sovente lo stress e le frequenti affezioni psicosomatiche. Ma il proposito è di parlare del silenzio piuttosto che del rumore. Inizierò dal significato negativo del silenzio quale minaccia, quale freddezza, quale simbolo del vuoto e della morte. Ne sono bene consci gli psichiatri dei bambini perché questi ultimi temono in modo particolare la punizione del silenzio: 'non ti parlerò più' il che significa 'tu sei morto per me'. Tuttavia gli stessi genitori, come rammenta il Dr. Merloo, possono essere invasi da furore impotente di fronte alla strategia del silenzio opposizionale adottata dal bambino. Un'altra situazione ci viene raccontata dagli psicologi militari: lo stress della guerra e del combattimento induce i soldati a sparare più del necessario per scongiurare l'angoscia del silenzio. Sembra che durante la prima guerra mondiale fossero necessarie più di 7000 pallottole per ferire un nemico: si faceva soprattutto del rumore.
Di fronte a tale rappresentazione negativa del silenzio, vorrei ricordare il suo significato positivo riassunto nel detto: La parola è d'argento ma il silenzio è d'oro. Già Ovidio diceva che il silenzio è un segno di forza. In questo mondo, nel quale la religione tende a perdere il suo valore, si vedono apparire alcune caratteristiche della religiosità, in particolare il valore del silenzio come meditazione. Il silenzio resta un fattore fondamentale della preghiera. Esso è diventato un regola per alcuni ordini monastici, come i benedettini ed i trappisti. Al di là di questi modelli non più alla moda, sorprende vedere che l'ondata di orientalismo giunta nel mondo occidentale attraverso la California, non abbia sufficientemente considerato che una delle componenti fondamentali di numerose filosofie orientali è proprio la possibilità di reintegrare il tempo del silenzio: esso è anche un tempo di introiezione e di introspezione bene differente dal mondo proiettivo e produttivo dell'esperienza del rumore e talora della parola.
Il silenzio come comunicazione è stato recentemente rivalutato dalla scuola sistemica attraverso lo studio, dapprima di Bateson e poi di Schlefen, sulla comunicazione analogica e sull'esame del silenzio considerato come uno dei numerosi codici di comunicazione di un individuo con il suo clan.

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Disabilità e silenzio - L'altra faccia della medaglia Empty Re: Disabilità e silenzio - L'altra faccia della medaglia

Messaggio  Maria Grazia Di Paola Mer Dic 03, 2008 7:40 pm

Freud diceva che il conscio era come la punta di un icerberg rispetto al sistema del preconscio e dell'inconscio. In una annotazione del 1963, Barande dice che i processi creati vi si sviluppano di preferenza nel silenzio, e più spesso grazie al silenzio.

E ciò tentando di evitare quanto possibile la mitologia del silenzio, perché la meditazione non è sufficiente per la creatività. La speranza di una comunicazione intuitiva nel silenzio, così come la ricerca nirvanica del silenzio intrauterino, rappresentano dei sogni ben lontani dalla realtà fisiologica alla quale hanno sensibilizzato le recenti ricerche in psicofisiologìa ostetrica.

Vi è anche la mitologia del silenzio analitico da parte degli psicoterapeuti che incominciano la loro professione, e cercano di imitare gli psicanalisti. Si può parlare per non dire niente, per creare la ninna-nanna (è l'aspetto corporeo della voce, il bagno sonoro dei suoni di D. Anzieu). Si può tacere e dare un’interpretazione convincente o persecutoria, perché l'attesa è stata rinforzata dal silenzio

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Disabilità e silenzio - L'altra faccia della medaglia Empty L'ARTE DI TACERE E ASCOLTARE

Messaggio  teresa aligante Gio Dic 04, 2008 8:58 pm

Il silenzio maturo ascolta e riconosce, rispettando chi parla. Un radicale cambiamento in tal senso può dare finalmente inizio a un rinnovato rapporto col mondo e con gli altri, ma soprattutto con noi stessi. La nostra cultura è quella più satura di suoni e rumori nel tempo e nello spazio. Ivan Illich sostiene che il silenzio dovrebbe essere considerato un diritto comune, un "uso civico" che serve alla meditazione, al pensiero, all'apprendimento, per tacitare le passioni, la sofferenza che viene dall'ignoranza. In epoche lontane esistevano dei santuari silenziosi, immersi nella natura, dove chiunque poteva isolarsi per eliminare ogni tensione psichica. Del resto, come ha bisogno del riposo e del sonno per rigenerare le proprie energie vitali, l'uomo ha anche la necessità di momenti di solitudine per ritrovare uno stato di quiete interiore fatto di silenzio limpido e compatto.
C'è chi rincorre spazi fisici di silenziosa tranquillità per ricostruire il proprio metabolismo spirituale, e chi invece non bada alla ressa e addirittura soffre nel trovare troppa quiete negli ambienti naturali, sollecitato com'è dalla macchina consumistica e dall'irrequietezza che è propria del nostro tempo. Siamo divoratori di spazio, abbiamo acquisito una mobilità ignota alle antiche generazioni, ci si muove dietro alle tendenze dettate dalla pubblicità, siamo condannati da tutte queste realtà oggettive, da un cambiamento culturale che allontana sempre più dal silenzio da cui si fugge per paura, come per la paura del vuoto.
Lontano dagli strepiti dell'artificiale e del superfluo, c'è un'etica del silenzio che non sta nel non parlare, ma nel saper tacere quando è tempo di tacere, e nel saper parlare quand'è il suo tempo. Una virtù, questa, che però deve godere della libertà di parlare o di tacere, e sceglierne il tempo. Uno scrittore americano ricorda il consiglio di un indiano sioux: quando devi rispondere a una domanda importante, prima di parlare aspetta cinque minuti. Se rispondi subito le parole vengono dalla mente, se rispondi dopo aver aspettato vengono dal cuore. Il culto del silenzio nella preghiera, nella poesia, nella meditazione e nella letteratura, ha dato luogo a infinite interpretazioni, metafore, significati. Tra questi, in un mondo dove tutti vogliono esprimere opinioni e giudizi, l'arte di ascoltare, ovvero di stare in silenzio, è forse quello più difficile da mettere in pratica. Perché si tratta di un silenzio maturo che ascolta e riconosce, rispettando chi parla. Un radicale cambiamento in tal senso darà finalmente inizio ad un rinnovato rapporto col mondo e con gli altri, ma soprattutto con noi stessi.
Articolo su www.lifegate.it

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Disabilità e silenzio - L'altra faccia della medaglia Empty Il silenzio

Messaggio  Rossella Accardo Gio Dic 04, 2008 9:10 pm

Di fatto, ogni silenzio consiste nella rete di rumori minuti che l'avvolge: il silenzio dell'isola si staccava da quello del calmo mare circostante perché era percorso da fruscii vegetali, da versi d'uccelli o da un improvviso frullo d'ali. (Italo Calvino)
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Disabilità e silenzio - L'altra faccia della medaglia Empty il silenzio esplicito del linguaggio non verbale

Messaggio  Maria Grazia Di Paola Mar Dic 09, 2008 8:48 pm

Tutti riconoscono il valore di gesti, atteggiamenti, comportamenti nel favorire o talvolta ostacolare la comunicazione, anzi il linguaggio non verbale spessissimo viene utilizzato come "codice di controllo" della comunicazione verbale nonostante pochi ne hanno fatto materia di studio.
Chi volesse tentare di "imparare", nel senso tradizionale del termine, questo linguaggio, probabilmente dovrà procedere per gradi, prima individuando i segnali non verbali più usati per poi tentare di scoprirne i significati e le possibilità di utilizzo. L'obiettivo della conoscenza potrà essere non solo quello di affinare le proprie capacità comunicative attraverso l'utilizzo consapevole del linguaggio non verbale (traguardo molto difficile da raggiungere), ma soprattutto quello di poter interpretare più chiaramente il messaggio dell'interlocutore e soprattutto "allargare " la conoscenza di sé.

Facilmente si può avere la percezione di che cosa è il linguaggio non verbale immaginando di trovarsi all'estero senza conoscere la lingua: quando ci servirà la collaborazione di un'altra persona occorrerà attingere a risorse diverse dalle parole e per le comunicazioni "di routine" e/o quelle riconducibili al contesto non sarà difficile!!
Al di là delle differenze culturali, anche a volte contrastanti dei vari Paesi, è come se esistesse per la specie umana un codice di linguaggio universale. Usualmente il linguaggio non verbale è contemporaneo al linguaggio verbale e ciascuno secondo la propria inclinazione, educazione o contesto sceglierà per lo più inconsapevolmente di utilizzare maggiormente l'uno o l'altro.

Watzlawick , in alcune sue pubblicazioni, aveva sostenuto che ogni comunicazione avviene contemporaneamente su due piani, quello del contenuto e quello della relazione : mediante le parole trasmettiamo delle informazioni e con i segnali del corpo diamo "informazioni alle informazioni".

Risulta facile accorgersi che se non c'è congruenza tra i due tipi di segnali l'interlocutore "tenderà le orecchie" essendosi avvalso del linguaggio non verbale per "controllare quello verbale". Acquistano così importanza il tono della voce , la mimica , l'atteggiamento , la distanza , la gestualità segnali che non hanno significati univoci e che possono essere anche facilmente fraintesi (il sorriso è ironico o segnale di gioia? Il silenzio è insicurezza o scelta consapevole? ...).
Si può tentare di individuare alcune "regolarità" anche nelle forme di espressione del linguaggio non verbale proprio per quello che attiene all'atteggiamento, alla mimica, alla gestualità, alla distanza, al tono.

Il tono riguarda la sonorità delle espressioni dell'individuo e quindi l'intonazione, il ritmo, ma anche il sospiro o il silenzio; per mimica intendiamo tutto quello che si può osservare sul viso di una persona; per atteggiamento possiamo intendere la postura dell'individuo ed anche i movimenti che la modificano (spostarsi di lato, incrociare le braccia…), la distanza è quella che ci separa dagli altri o i movimenti per regolarla (per es. indietreggiare); nella gestualità comprendiamo tutti i gesti delle braccia ed alcune azioni riconoscibili come "gesti" : grattarsi la testa, schiacciarsi la punta del naso…

Come tutte le classificazioni anche questa presenterà delle difficoltà volendo analizzare alcuni comportamenti o segnali, ma può aiutarci a stimolare il nostro senso di osservazione. Altre capacità che contribuiscono a questo apprendimento sono una buona capacità di ascolto e una buona dose di empatia in quanto comprendere il proprio mondo emotivo aiuterà a intuire quello degli altri. Attraverso l'osservazione, la capacità di ascolto e l'empatia riusciremo a riconoscere il linguaggio del corpo per poi passare ad interpretarlo e … giudicarlo positivo/negativo in base a criteri di onestà/sincerità, congruenza/incongruenza, spontaneità/autodisciplina, scherzo/ironia.

Maria Grazia Di Paola

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Disabilità e silenzio - L'altra faccia della medaglia Empty Un silenzio pieno di gesti 'il linguaggio delle mani'

Messaggio  Maria Grazia Di Paola Mar Dic 09, 2008 8:54 pm

Con la loro capacità di rafforzare e spesso sostituire le parole, le mani manifestano quello che i latini chiamavano ”gesto oratorio”: indispensabili nei contatti sociali e con le loro espressioni di orientare, minacciare, benedire, accarezzare e colpire, diventano uno strumento prezioso di lettura e di comprensione degli altri.

Il saluto

L’uso delle mani per salutare una persona cambia spesso a seconda delle popolazioni e delle tradizioni.
In Malesia, ad esempio, le mani si incrociano sul petto e stringono le spalle, quasi abbracciando sé stesso ed inibendo quindi il contatto fisico con l’altro che rimane virtuale.
Il saluto hawaiano invece è caratterizzato dalla mano alzata sopra la testa e fatta ondeggiare con pollice e mignolo distesi e le altre dita piegate. Pochi sanno che questo gesto fu portato sulle isole Hawaii dai primi conquistatori spagnoli, i quali entrarono in comunicazione con gli indigeni mimando il gesto amichevole di un invito ad una bevuta.
Nell’Antica Roma si usava stringere contemporaneamente i due avambracci della mano destra in segno di reciproca amicizia e non di uso aggressivo della mano, che solitamente impugnava la spada.
I bantù africani, fra i pochi popoli ad usare da sempre la stretta di mano, si salutano invece sollevando in aria le mani strette reciprocamente e “sganciandole” poi nel momento in cui si trovano nella posizione più alta.

La stretta di mano

Ogni stretta di mano diventa un’esperienza da cui trarre un’impressione reciproca anche in un primo incontro con una persona fino ad allora sconosciuta.

La stretta di mano energica indica, da parte di chi la pratica, una personalità sicura e con buona autostima, se però si esprime in modo troppo energico potrebbe indicare una certa aggressività.
Una stretta “molle” rivela invece una natura poco cordiale, sfuggente e talvolta ambigua.
La stretta di mano viene definita “rustica” quando è troppo forte nello stringere ed agitare. Rivela schiettezza, abitudine ai lavori manuali, in qualche caso ostentazione di forza e grossolanità.

La stretta di mano assente è invece sintomo di debolezza, insicurezza e paura di un coinvolgimento.
Quando la stretta di mano viene prolungata in modo eccessivo, il soggetto che la pratica rivela una natura invadente mentre una stretta di mano tremolante e con sudorazione trasmette ansia e agitazione da parte di chi la pratica.
Quella denominata “a sandwich”, con l’uso cioè di entrambe le mani, vuole mostrare un particolare affetto.
Quando il contatto è infine ponderato e normale, vi si può individuare tanto una spontanea socievolezza quanto un desiderio di prudenza nell’approccio e attenzione nel non svelare nulla di se stessi.
Le carezze ed il massaggio

Le mani possono sfiorare, spingere, frizionare, sentire, toccare, accarezzare, massaggiare. Queste azioni rimandano a contenuti affettivi e corporei, ad una relazione ed a un linguaggio - quello del tatto - notoriamente penalizzato in una cultura, come quella occidentale, essenzialmente cognitiva, visiva e improntata su un formalismo che penalizza i contatti fisici. Anche quando si entra nella sfera di rapporti più intimi, le tenerezze, le carezze, i preliminari possono risultare poco facili o limitati mentre prevale il piacere della penetrazione e dell’orgasmo.
A livello fisiologico, invece, i recettori della pelle, stimolati dagli sfioramenti delle mani, trasmettono le stimolazioni prima alla corteccia cerebrale, subito dopo al talamo e quindi all'ipotalamo fornendo sensazioni di piacere molto elevati.

Altri significati nel linguaggio delle mani

Le mani possiedono un loro linguaggio che può integrare quello verbale ma essere anche indipendente da esso, esprimendo persino il contrario di ciò che si trasmettendo per mezzo delle parole.
Può capitare che, nel corso di un colloquio importante, una persona avverta il disagio di non sapere dove mettere le mani. Se tende, ad esempio, ad infilarle e sfilarle dalla tasca ripetutamente, sistemarsi l’abbigliamento, giocherellare con una collana o con un bottone o con qualsiasi oggetto abbia tra le mani, egli trasmetterà una sensazione di insicurezza. Se la tendenza è invece quella di nasconderle, ad esempio tenendole ostinatamente in tasca, il soggetto rivelerà una scarsa affidabilità o comunque la tendenza a nascondere la verità su se stesso.
Se durante un dialogo la persona tende a muovere animatamente le mani può esprimere estroversione ma anche tradire una certa ansia nel vivere la situazione, e dunque una indole insicura o impaziente.
Colui che non muove mai le mani è probabilmente una persona metodica, lenta nel prendere le decisioni ma anche impermeabile alle idee nuove.
Toccarsi il naso con l’indice indica che il soggetto deve prendere una decisione importante. Se con l’indice invece si tocca la nuca si tratta di un timido e timoroso davanti alle difficoltà.
Se si tiene il collo con l’indice ricurvo come fosse un uncino, si ha davanti qualcuno che tende a sopravvalutarsi.
Prendersi la testa fra le mani può denotare insicurezza e bisogno di conforto.
Chi si strofina le mani intrecciando contemporaneamente le dita è poco sincero ed è suggestionabile perché non è convinto delle sue idee, ma se le dita sono intrecciate mentre le palme stanno ferme la persona è sicura e soddisfatta.
Se le palme durante un discorso si avvicinano lentamente una all’altra congiungendosi come in un atto di preghiera si ha un temperamento ricco e generoso.
Le mani che si uniscono a formare una specie di palla o sono strette una all’altra indicano una tendenza all’avarizia.Il linguaggio con le mani per i sordociechi


Metodo Malossi

Per chi è colpito da un handicap sia visivo che uditivo, come nel caso della Sindrome di Usher, vi è la possibilità di valorizzare il contributo degli altri sensi, a partire dal tatto.
Il metodo Molossi è il principale sistema di comunicazione tra o con sordociechi in Italia e nasce dalle intuizioni del maestro Francesco Artusio, nei suoi tentativi di trovare un modo per comunicare con il suo allievo sordocieco Molossi. La sua efficacia resta però legata all’utilizzo da parte di persone che hanno appreso la lettura e la scrittura prima di diventare sordocieche.

La comunicazione con il metodo Molossi avviene l’uso delle mani: per indicare una lettera si tocca un determinato punto della mano aperta, per scrivere una parola si toccano in sequenza diversi punti.

Diversi significati, inoltre, vengono associati a seconda che le lettere vengano semplicemente toccate o pizzicate.
La distribuzione delle lettere avviene in forma sequenziale dal pollice al mignolo secondo i seguenti gruppi e posizioni:
- dalla A a E nella zona dei polpastrelli (tocco)
- da F a J nella falange media (tocco)
- da K a O nella zona dell’articolazione delle dita (tocco)
- da P a T nella zona dei polpastrelli (pizzico)
- da U a Z nella zona dell’articolazione delle dita (pizzico)
La lettera W si rappresenta pizzicando il punto situato tra l’indice e il medio.

Metodo Tadoma

Il metodo di comunicazione Tadoma è costituito dal riconoscimento dei suoni vocali utilizzando il tatto, ovvero poggiando il pollice sulle labbra ed il palmo della mano sulle guance di chi parla. Il metodo si basa sul fatto che la posizione della bocca e delle labbra cambia a seconda del suono emesso e che dunque si può imparare a riconoscere le varie posizioni ed associarle a lettere o parole.
Nelle prime fasi dell'apprendimento del Tadoma, si usa ponendo entrambe le mani sul viso di chi parla. Con l'acquisizione della pratica, è invece di solito sufficiente una sola mano per decifrare le parole: il pollice viene appoggiato leggermente alle labbra di chi parla o anche a pochi millimetri di distanza, purché si possa rilevare la posizione delle labbra. Il mignolo viene invece appoggiato alla mascella, per cogliere le vibrazioni trasmesse attraverso l'osso; le altre dita, infine, rimangono appoggiate sulle guance, rilevando varie importanti sensazioni tattili.
Con l'allenamento si imparerà a capire quanta aria viene emessa durante la produzione del suono, la durata dell’emissione (molto più lunga, ad esempio, nel caso della pronuncia della lettera S rispetto alla pronuncia della P), persino la temperatura dell'aria (più calda quando vengono emessi suoni nasali come M o N), e così via. La somma delle informazioni così raccolte permette di riconoscere con un buon margine di sicurezza tutti i suoni emessi e poter ricostruire intere frasi.

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Messaggio  mariarosaria tarallo Mer Dic 10, 2008 12:55 am

il recupero del tatto quale canale comunicativo è fondamentale. Io credo che questi tanti linguaggi dell'essere umano dovrebbero essere patrimonio di tutti, non soltanto di coloro che per propria o altrui vicina condizione, o per professione, devono conoscerli.
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Messaggio  rita_anvg Mer Dic 10, 2008 11:32 am

mariarosaria tarallo ha scritto:il recupero del tatto quale canale comunicativo è fondamentale. Io credo che questi tanti linguaggi dell'essere umano dovrebbero essere patrimonio di tutti, non soltanto di coloro che per propria o altrui vicina condizione, o per professione, devono conoscerli.


Per quanto riguarda il linguaggio delle mani, Ross concordo pienamente su questa tua affermazione.
Ieri cercavo del materiale sul seminario tenuto dalla Zoppi sul silenzio, appena riesco a recuperarlo lo posto Wink


Intanto vi lascio il buon giorno riportando una frase molto significativa a mio parere:
Chi non comprende il tuo silenzio probabilmente non capirà nemmeno le tue parole.
( Elbert Hubbard )
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Messaggio  Maria Grazia Di Paola Mer Dic 10, 2008 5:17 pm

sarebbe utile un'infarinatura generale se non proprio dei linguaggi almeno dei metodi e delle tecniche di comunicazione Very Happy
e tale discorso vale ancora di più per gli insegnanti di sostegno che si trovano ad dover affrontare e gestire una molteplicità disabilità notevoli nel corso della loro carriera lavorativa.

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Messaggio  alessandra di fiore Mer Dic 10, 2008 8:08 pm

Stefano Rulli e Marco Bellocchi avevano vissuto l'esperienza che li
aveva poi portati al film Matti da slegare dove viene incentrato il
mistero della follia, fatto di relazioni umane, come quelle che legano
mogli, mariti, padri, madri, figli difficili raccontati attraverso il
vissuto quotidiano.

Molti anni dopo Stefano conosce, attraverso la propria esperienza di padre, che cosa si prova ad essere genitori di un figlio con problemi psichici. Cosi nel 1998 a Perugia sul monte Peglia nasce per sua volontà, della moglie, di altre famiglie e di alcuni operatori, la " città del sole" una casa famiglia per l'integrazione delle persone con malattie mentali, nel mondo del lavoro, nel tempo libero e nella residenzialità.
Improntata sull'idea dell'integrazione tra persone disabili e non, l'agriturismo è aperto a tutti in modo che un qualsiasi turista può trascorrervi le vacanze, con l'unica differenza di trovarsi come vicino di tavolo una persona disabile.
La residenzialità è un rapporto di interscambio tra ragazzi disabili e persone che hanno problemi di altro genere come quello economico, infatti gli si offre una dimora in cambio di un pò di tempo da trascorrere con loro. Chi ha la necessità dell'uso della casa sono per lo più giovani, per cui c'è un rapporto diretto tra coetani che vivono insieme la loro età.
La città del sole porta avanti la logica della condivisione, dello stare insieme attraverso una fusione tra diversità e normalità nell'unico canale dello scambio dei bisogni e delle idee reciproche e non sulla solidarietà della buona azione.
Purtroppo, questo sole sta per spegnersi, perchè i casali sono stati messi in vendita, per questo motivo Stefano da un filmino privato ha fatto nascere "un silenzio particolare" che parla di Matteo un ragazzo autistico e del suo difficile rapporto con la natura e con gli altri all'interno della casa famiglia, Matteo non parla si esprime attraverso un linguaggio fatto di sguardi e di gesti più che di parole.
Stefano sta cercando in tutti i modi di trovare i fondi per acquistare i casali ed i proventi del film avranno questo scopo, al fine di continuare l'opera della città del sole ed evitare che su di essa e su tante famiglie scenda la notte.
Un silenzio particolare» è uscito venerdì 11 febbraio a Roma, Torino, Milano e Perugia

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Messaggio  Maria Grazia Di Paola Mer Dic 10, 2008 9:35 pm

qualche tempo fa ho visto un programma televisivo sull'argomento, il manto di silenzio (il silenzio nella sua faccia negativa) che ricopre il tema della follia è inquietante.
Le famiglie sono lasciate sole ad affrontare enormi problemi, le istituzioni latitano, la società ignora o no vol 'sentire'...tutto passa sotto silenzio come la stessa 'follia'.

Questo sito esplicita con le immagini il silenzio della 'follia'

http://www.nital.it/life/follia.php

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Messaggio  Maria Grazia Di Paola Mer Dic 10, 2008 9:52 pm

Lo sguardo di Matteo


Quando il vento sbatte le imposte e fischia minaccioso Matteo cerca, quasi invoca, un silenzio che lo rassicuri. Lui cui basta il pianto di un bambino perché un'ombra gli imbratti il viso. Lui che in questo film, cui ha dato il titolo, Un silenzio particolare appunto, senza volerlo e senza saperlo, è il protagonista ma solo tra altri protagonisti, il punto di partenza e mai di arrivo di un'utopia. Non di un sogno, beninteso, ma di una vera e propria utopia che è altra storia, altro costruire, altro raccordarsi. L'utopia di un mondo in cui le diversità si incontrano, in cui la normalità incontra la malattia, oltre ogni confine, ogni ghetto, mentale prima ancora che fisico («Perché - come dice Stefano Rulli - anche senza i manicomi far vivere in case famiglia o in altre strutture i malati solo con i malati e mai con i normali significa ricreare qualcosa che ai manicomi somiglia»). Per Matteo la diversità è il suo disagio mentale, per noi che lo guardiamo sullo schermo è il suo sguardo vuoto in cui annega già da bambino, fissato nelle immagini sgranate del superotto di famiglia. Eppure è stato lui ad entrare in campo. Lui, distaccato dagli altri e dal mondo, a spingersi sotto la macchina digitale che riprendeva qualcos'altro: immagini e persone dell'agriturismo della "Città del Sole" fondato da Stefano Rulli e Clara Sereni, papà e mamma di Matteo.

È successo in modo inatteso ma è successo. E lui ha accettato di guardarsi in qualche modo, di riconoscersi: è entrato in campo ed è diventato protagonista. Questo bellissimo, e non meno straziante, film-documentario (presentato alla scorsa Mostra veneziana e ora in arrivo sui nostri schermi) è la sua storia. Meglio: un'idea della sua storia. E anche un'idea dell'utopia cui chi gli sta intorno non vuol rinunciare: un matrimonio qualsiasi in cui i malati e i non malati si mischiano e, semplicemente, mangiano, ballano, cantano insieme e nulla più, ne è un frammento. Come dice la Sereni mentre sta in mezzo a quella baldoria: «Chi sono? Sono solo persone per cui vale la pena di vivere, persone che ti permettono non di credere non nei sogni, in cui io credo poco, ma nelle utopie di cui non posso fare a meno». D'altra parte il film partecipa di questa stessa utopia, ne è un piccolo pezzo: perché, come dice Rulli, sceneggiatore da una vita, regista di nuovo dopo vent'anni e uomo di cinema da sempre, «attraverso la realizzazione di questo film, reso possibile dal digitale, è come se Matteo avesse accettato di guardarsi per la prima volta, e per la prima volta ha potuto avvicinarsi a sua madre controllando la propria aggressività, per la prima volta ha tenuto in braccio la bambina che col suo pianto lo aveva inquietato e, lasciandoci di stucco, si è messo a cantargli una ninna nanna».

Ma non è neppure tutto perché Rulli con questo film ha fatto qualcosa di più e di diverso rispetto a ciò che aveva realizzato cosceneggiando Le chiavi di casa di Gianni Amelio. Come lui dice: «Lì, sia pure affrontando di nuovo l'handicap, ho lavorato come uno sceneggiatore, sintetizzando in parole delle esperienze universali da raccontare, qui ho lavorato ascoltando, al di fuori di ogni schema, lasciando la parola agli altri, anche se poi ero io, alla fine, a ricostruire un filo conduttore, dunque si è trattato di un altro linguaggio, di un altro genere di film». E, ancora, qualcosa di diverso lo ha fatto tornando nei luoghi da cui era partito quasi trent'anni fa, quando aveva girato con Bellocchio, Agosti e Petraglia l'indimenticato Matti da slegare che tutto ruotava intorno a un pugno di disabili psichici che la legge Basaglia aveva di colpo reso liberi, almeno dalla prigione del manicomio, ma tornandoci con una storia tutta osservata e narrata dal di dentro, con fermezza e commozione, tenerezza e implacabilità. Ma, ciò che più conta, questo film di dolore e di disperata speranza, questa storia di vite che diventano attese ed esercizi di pazienza, ha anche dato un vero, corposo, concreto contributo al cinema ma non solo: ha regalato uno sguardo. Uno sguardo diverso su qualcosa o qualcuno, sulla diversità e sulla malattia mentale, sul disagio di chi la vive e di chi la subisce, sulla paura di chi fugge di fronte ad essa e di chi resta, su gesti di vita quotidiana che potrebbero appartenere a chiunque. Insomma ha fatto ciò che il cinema sempre dovrebbe fare.

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Messaggio  teresa aligante Mer Dic 10, 2008 11:39 pm

La parola autismo richiama mutismo, isolamento, indifferenza nei confronti dell'ambiente esterno.
La medicina classifica la sindrome autistica all'interno dei Disturbi pervasivi dello sviluppo, a significare l'insorgenza in età neonatale con compromissione della normale crescita intellettuale ed emotiva, ma non di quella fisica. Grossolanamente si può dire che i bambini autistici fisicamente sono sani e si sviluppano come i loro coetanei, ma sono affetti da gravi anomalie nella comunicazione e da un certo ritardo mentale.
Nei bambini autistici sono compromesse l'interazione sociale, la comunicazione verbale e quella non verbale, ovvero la mimica dei gesti con cui il bambino si esprime prima di iniziare a parlare. Il comportamento, gli interessi e le attività sono ristretti, ripetitivi e stereotipati. Il linguaggio, quando è presente (circa il 50% dei casi) è ripetitivo (ecolalico), è caratterizzato dall'uso scorretto della prima e della seconda persona, viene usato in forma non adeguata a comunicare, per esempio con frasi senza significato o fuori del contesto. La carenza dell'immaginazione e dell'imitazione non consentono il normale gioco infantile, che viene sostituito da movimenti stereotipati privi di senso. Questi bambini sono ostacolati nello sviluppo delle relazioni sociali, della comunicazione e dei meccanismi emozionali, sembrano perciò assenti ma possono essere ipersensibili a particolari stimoli. Sin dai primi mesi, infatti, possono mostrare fastidio, e di conseguenza ansia e nervosismo, per un odore, un suono, il contatto fisico da cui si ritraggono. La loro incapacità a comunicare è particolarmente evidente, e dolorosa, in quanto non rispondono alla voce dei genitori, sfuggono lo sguardo e non riescono a esprimere le emozioni che ci si aspetterebbe da loro. Tutto questo non nasce da una precisa volontà di isolamento ma dalla loro percezione del mondo esterno che è distorta o carente. I sintomi hanno un esordio precoce, prima dei tre anni di età, e perdurano nel corso della vita intera, pur con le modificazioni che il progredire dell'età solitamente comporta. Certi segni possono essere riscontrabili fin dalla nascita o comparire successivamente, in quest'ultimo caso il bambino spesso perde le competenze gestuali e linguistiche che aveva già acquisito.

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Messaggio  teresa aligante Mer Dic 10, 2008 11:41 pm

Una forma atipica e del tutto anomala di autismo infantile è la Sindrome di Rett, un disturbo neurologico progressivo, che colpisce solo i soggetti di sesso femminile con una incidenza oscillante da 1/10.000 a 1/15.000 casi. Le bambine, nella maggior parte dei casi, presentano uno sviluppo apparentemente normale fino ai due anni di vita, parlano, si muovono, ridono e si relazionano ai genitori e ai coetanei. Successivamente ha luogo un rallentamento o blocco delle acquisizioni fatte fino a quel momento. La Sindrome è caratterizzata dalla perdita del linguaggio acquisito, perdita dell'uso finalizzato delle mani che assumono movimenti stereotipati (come lo strofinio delle mani), da una diminuzione della comunicazione e socializzazione, perdita di interesse per le persone e l’ambiente, da un grave ritardo motorio, da aprassia e atassia. Tutte le abilità risultano danneggiate, ma in modo particolare le abilità comunicative che, nella maggior parte dei casi, scompaiono totalmente. Le bambine affette dalla Sindrome di Rett non hanno una modalità comunicativa che permetta loro di esprimere i bisogni, le esigenze, le richieste. È un disturbo grave e raro, poco conosciuto anche dagli operatori del settore. Infatti, a più di vent’anni dalla prima diagnosi di sindrome di Rett, sono ancora molti i lati oscuri di una malattia di cui solo le bambine, possono essere affette. La scienza l’ha definita “malattia neurodegenerativa dell’evoluzione progressiva” i cui sintomi (lento regresso psicomotorio, assenza del linguaggio, stereotipia accentuata delle mani), compaiono all’incirca fra il primo e secondo anno di vita dopo una gravidanza apparentemente normale. Il rapido intensificarsi delle ricerche scientifiche che hanno caratterizzato questi ultimi anni, ha permesso, attraverso il grande lavoro di medici e ricercatori di tutto il mondo, di identificare MeCP2, il gene difettoso sul cromosoma X a cui viene attribuita l'origine della patologia. La scoperta, apparsa su "Nature Genetics" il 1 ottobre 1999, attribuisce definitivamente l'origine genetica alla Sindrome di Rett e giunge dopo anni di lunghi studi e faticose ricerche nel campo genetico che hanno coinvolto, oltre ai ricercatori americani, studiosi di tutto il mondo. L’origine è certamente genetica, ma le cause sono ancora sconosciute.

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Disabilità e silenzio - L'altra faccia della medaglia Empty Poesia: Alla mia bimba dagli occhi belli

Messaggio  teresa aligante Mer Dic 10, 2008 11:47 pm

E all’improvviso sei arrivata tu
nella mia vita “bimba dagli occhi belli”
che con la forza di mille venti
mi hai portata nelle “terre del tuo pensiero”
io che come ogni uomo del mio tempo,
ero sommersa da messaggi diretti,
espliciti, troppo espliciti,
mi sono seduta al tuo fianco
ed ho imparato a leggere il silenzio,
quel silenzio che racchiude sempre
verità profonde
e la vera essenza di ogni essere
umano.
Grazie per questo meraviglioso regalo
che custodirò con cura.

E' una poesia scritta da Melina, maestra di sostegno di Carolina, una bambina affetta da Sindrome di Rett

teresa aligante

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Disabilità e silenzio - L'altra faccia della medaglia Empty Re: Disabilità e silenzio - L'altra faccia della medaglia

Messaggio  Emilia Caporaso Gio Dic 11, 2008 1:10 am

Maria Grazia Di Paola ha scritto:La mia collega (Aligante Teresa) e io (Maria Grazia F. Di Paola) riprendiamo le file del discorso sulla disabilità annodando i fili del silenzio.
Silenzio come comunicazione
Silenzio come alternativa alla parola
Silenzio come altro dal gesto
Silenzio come vicinanza
Silenzio come ascolto
Silenzio come essere presente
ma anche
Silenzio come vuoto
Silenzio come oblio
Silenzio come manto che annulla
Silenzio come non visibilità

Il silenzio si può immaginare come uno strumento della riflessione, nel quale l'uomo si distende per rettificare il gettito della produzione del suo sapere, ma anche può essere rifugio della sua incapacità creativa o attimo di assestamento per la distribuzione delle sue risorse. Nel silenzio acquista dimensione trascendentale e per mezzo della quale, l'uomo, valuta i problemi dell'esistenza dando impulso alla diversità dell'esperienza e del sapere, trasformandosi egli stesso in creatività.



Disabilità e silenzio - L'altra faccia della medaglia Silenzio

Ricordate che anche il silenzio può fare tanto rumore....

Emilia Caporaso

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Disabilità e silenzio - L'altra faccia della medaglia Empty C'è bisogno del silenzio per saper ascoltare

Messaggio  Maria Grazia Di Paola Gio Dic 11, 2008 6:22 pm

SAPER ASCOLTARE
E' possibile valutare la capacità di ascolto in relazione al tempo dedicato, alla modalità ed ai benefici ricevuti?

Saper "ben ascoltare" può portare ad aprire la mente a nuove idee, a nuove soluzioni, ad arricchimento della persona. E' un'abilità che può essere molto utile anche per la crescita professionale. Questa capacità contribuisce notevolmente ad essere dei bravi genitori, dei buoni figli, degli insostituibili compagni; è indispensabile ai medici, ai manager, indiscutibilmente agli addetti alle vendite.

Da studi statistici, (scrivere 9%, leggere 16%, parlare 35%, ascoltare 40% percentuali del tempo dedicato ai processi di comunicazione) , è stato rilevato che, nei processi di comunicazione, la maggior parte del tempo viene dedicata all'ascolto.


Poiché il tempo è un bene prezioso e va utilizzato al meglio, le modalità di ascolto dovrebbero essere migliorate. Un metodo è quello di analizzare schematicamente le proprie modalità di ascolto e tentare di quantificarle:

Ascolto finto
Ascolto "a tratti" , lasciandosi catturare da distrazioni, dall'immaginazione e comunque fidandosi dell'intuito che precocemente cattura le cose "importanti" tralasciando quelle meno importanti. Ascolto quindi passivo, senza reazioni, vissuto solo come opportunità per poter parlare.

Ascolto logico
Ci si sente già soddisfatti quando ci si scopre ad ascoltare applicando un efficace controllo del significato logico di quello che ci viene detto. L'attenzione sarà concentrata sul contenuto di ciò che viene espresso ed anche l'interlocutore potrebbe avere l'errata convinzione di essere stato capito.

Ascolto attivo empatico
Ci si mette in condizione di "ascolto efficace " provando a mettersi "nei panni dell' altro ", cercando di entrare nel punto di vista del nostro interlocutore e comunque condividendo, per quello che è umanamente possibile, le sensazioni che manifesta. Attenzione: da questa modalità è escluso il giudizio, ma anche il consiglio e la tensione del "dover darsi da fare" per risolvere il problema.



Quanto si è disposti a credere che quest'ultima modalità possa allargare le conoscenze, facilitare i rapporti, evitare errori, risparmiare tempo, aumentare la fiducia nella relazione? Può valer la pena di fare dei tentativi?

Lo sforzo necessario sarà di spostare il l'interesse dal "perché " l'altro dice, interpreta o vive una situazione al "come " la dice: avendo, e quindi mostrando, interesse e comprensione ("sei importante, ho stima di te e riconosco, rispetto e condivido il tuo sentimento"). Potrebbe succedere che chi parla, sentendosi ascoltato, tenterà di migliorare la comunicazione sia nella quantità che nella qualità a tutto vantaggio della ricchezza delle informazioni, del senso di sicurezza, della fiducia e dell'onestà.


Applicare una più efficiente modalità di ascolto avrà diversi vantaggi nei vari ambiti:


riduce le incomprensioni.
induce l'interlocutore ad esprimersi a pieno senza timore: spesso stimola in lui la ricerca delle migliori possibilità espressive, anche nei contenuti!

Rapportarsi al meglio con gli altri aumenta l'autostima e la fiducia in se stessi : si immagazzinano più informazioni, si eseguono meglio le istruzioni ed anche si ha maggior controllo su quelle date. Meno errori vuol dire impiegare il tempo al meglio in un clima di fiducia e di rispetto. Saper ascoltare se stessi, inoltre, metterà al riparo da scelte di cui ci si potrebbe pentire e aiuterà a soddisfare i bisogni ben individuati.

Gli obiettivi raggiungibili ascoltando a livello attivo empatico potrebbero consistere, quindi, in un arricchimento personale, in un sostegno al nostro interlocutore perché trovi da solo le risposte ai suoi problemi o entrambi contemporaneamente; in tutti i casi:

conviene aspettare il proprio turno ascoltando e poi parlare

Attenzione: le nostre abitudini di ascolto in qualche modo sono state influenzate dai modelli appresi da bambini e da come si è sviluppata la nostra integrazione nelle prime occasioni di socializzazione. Tuttavia, con un certo esercizio, è possibile migliorare le proprie capacità di ascolto.

Ecco due semplici esercitazioni per:


1- migliorare le abilità di ascolto imparando ad utilizzare un ascolto attivo empatico


Nella situazione in cui il nostro interlocutore è preda di uno stato emotivo alto (rabbia, ansia, agitazione), per un fatto che non dipende da te, prova ad ascoltare al livello attivo empatico.

Prova ad ascoltare al livello attivo empatico quando il problema che ha causato lo stato emotivo ti coinvolge come attore (l'interlocutore ti considera la causa del suo stato emotivo perturbato).La teoria, in questo caso, è applicabile più difficilmente e sarà necessario uno sforzo per riuscire nell'impresa.

Fai mente locale su qualche persona che ritieni un "buon ascoltatore", poi rifletti sul suo modo di porgersi e sulle gradevoli sensazioni che ti procura; ricorda, inoltre, qualche situazione in cui un buon ascolto ha o avrebbe risolto un problema più in fretta.


2- allenarsi all'ascolto e alla consapevolezza


Prova a ripensare ad alcuni momenti passati della tua vita in cui sei riuscito ad esprimerti su argomenti "difficili"; quanto ti sei sentito veramente ascoltato; con chi eri? Quando o quanto invece hai "dovuto tener dentro" perché bloccato dal tuo interlocutore? Chi era? Da chi ti piacerebbe o ti sarebbe piaciuto essere ascoltato di più?
Per alcuni minuti chiudi gli occhi e concentrati sui rumori che provengono dall'esterno sforzandoti di captare anche quelli meno percettibili.
Prova ad ascoltare con impegno una conferenza per te poco interessante o gli interventi di una riunione noiosa.

Maria Grazia Di Paola

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Disabilità e silenzio - L'altra faccia della medaglia Empty Un’ipotesi sul silenzio

Messaggio  Maria Grazia Di Paola Gio Dic 11, 2008 6:41 pm

Disabilità e silenzio - L'altra faccia della medaglia Medium_spiro01.2

La riflessione di un monaco buddista zen

Il silenzio è un aspetto della realtà, e in quanto tale è possibile provare a parlarne. Se ne posso parlare è perché posso ascoltarlo. Solo di ciò che ascolto io posso parlare: la realtà parla, dentro e fuori di me, io ascolto e ridico. Riconosco il silenzio, realtà immateriale, al punto da attribuirgli un nome, solo perché lo posso ascoltare, con lo spirito e il corpo. Ma cos’è mai l’ascolto del silenzio e in che cosa si differenzia, se si differenzia, dall’ascolto del suono? Il silenzio non si può ascoltare come oggetto di udito: il cosiddetto suono del silenzio è, appunto, primariamente suono. Se ascoltassi il silenzio come fosse un “materiale” per l’udito, mi disporrei in attesa di qualcosa: ma il silenzio, pur essendo reale, non è in nulla “una cosa”. Per poter ascoltare il silenzio devo fare silenzio, non devo attrezzare, sintonizzare, bensì spogliare, disarmare l’udito. Non vuol dire tappare l’orecchio, anzi: devo sgombrarlo da tutto, deporre ogni vibrazione di fondo, ogni intenzione, ogni attesa. Devo farmi silenzio: solo il silenzio può ascoltare il silenzio. È proprio questa attitudine a farmi silenzio che oggi sembra essere in crisi. Si lamenta, a ragione, un crescente e pericoloso inquinamento acustico. La quantità dei rumori e dei suoni non è però la causa quanto piuttosto un effetto. La causa può essere proprio una progressiva inattitudine all’ascolto, un crescente rifiuto ad abbandonarsi al silenzio. A un certo punto del nostro collettivo umano cammino abbiamo cominciato a concepire il silenzio come fosse un oggetto, una cosa: lo abbiamo ontologizzato, filosoficamente parlando, gli abbiamo cioè attribuito un’entità che non possiede e non lo qualifica. Ridotto a oggetto, lo abbiamo trattato come stiamo trattando ogni cosa: ne abbiamo fatto un prodotto, una merce fruibile, un “bene” di consumo: e il silenzio, inafferrabile per natura, si ritira da noi. Non riuscendo ad afferrarlo, a capirlo e carpirlo, abbiamo iniziato a prenderlo in antipatia: come tutto ciò che non si riesce a conoscere e a capire, abbiamo cominciato a temerlo, ad averne paura. Innocente per natura (come può il silenzio far male, privo com’è di ogni arma?) lo abbiamo invece considerato nemico, lo abbiamo definito in antitesi, come opposto del suono, della vitalità, del movimento, un sinonimo di privazione, di stasi e di morte. Più diventiamo ostili al silenzio, più la sua innocua compagnia ci inquieta, più il silenzio, schivo e indifeso, si ritrae. Privati di familiarità col silenzio, diminuisce proporzionalmente la nostra capacità di ascolto: in silenzio infatti si ascolta, e senza silenzio non basta l’udito a fare l’ascolto: l’udito senza silenzio è solo percezione del rumore. Incapaci di abbandono al silenzio ci consegniamo inermi allo spadroneggiare del rumore: non è tanto la quantità e il livello dei suoni a frastornarci, quanto l’incapacità all’ascolto. La mortificazione del silenzio origina il vandalismo del rumore. Un brusio continuo, un rumore di fondo ci accompagna. Da quel rumore altro rumore si produce. Esiliato il silenzio, la parola e il suono non si generano e rigenerano rinnovati ma si trascinano ripetitivamente. Il segno tangibile di questa condizione sta nella riproducibilità fonica delle parole e dei suoni, che ha certo permesso una fruizione vasta e indiscriminata, ma ha anche consegnato alla ripetitività tecnica la creatività spontanea dell’unicità di ogni suono. Per dire del rapporto creativo fra silenzio e suono, mi appoggio, fuori da ogni confessionalità, a un passo della Torah e della Bibbia. Nel Libro dei Re si narra di Elia, fuggiasco, che si ritira in una grotta. «Dio gli disse: “Esci, fermati sul monte davanti al Signore; ecco il Signore passa e davanti a Lui soffia un vento grande e forte che sconquassa i monti e spezza le rupi, ma non nel vento è il Signore; dopo il vento verrà un terremoto, ma non nel terremoto è il Signore. Dopo il terremoto un fuoco, ma non nel fuoco è il Signore, e dopo il fuoco una voce sottile, quasi silenzio” [a still silent voice – “una quieta voce silente” – dice l’edizione inglese]. Quando ebbe udito questo Elia si avvolse il viso nel suo mantello, uscì e si fermò all’ingresso della grotta, ed ecco rivolgersi a lui una voce che disse: “Che cosa fai qui, Elia?”» (1Re,19,11-13). Forse il silenzio è la voce di Dio e il silenzio di Dio è la sua voce, dove non c’è contraddizione.

Maria Grazia Di Paola

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